Per un sagittario come me che per tutta la vita ha fatto il viaggiatore, per lavoro e per piacere, stare in casa chiuso rigidamente, già da 27 giorni, equivale ad una breve condanna agli arresti domiciliari. Ma anche se di certo qualcosa di sbagliato ho fatto nella vita e, come predicava il magistrato Di Pietro, ognuno di noi qualche minuto o qualche giorno di galera dovrebbe farselo a causa dei propri scheletri nell’armadio, io capisco benissimo quel bambino di 7 anni che, nei pressi di Bari, ha scritto alla polizia locale per chiedere di “arrestare” il coronavirus in modo da poter tornare a giocare all’oratorio.
A poco mi conforta il “mal comune mezzo gaudio” che vede metà della popolazione mondiale in quarantena, quasi la Terra fosse diventata un esteso gulag. Il bambino che è in me ha bisogno di relazione fisica, di odorare la gente, di movimento, di suoni e rumori, e di giocare. Inutile far finta di niente.
Ma non ci si può far nulla perché il nostro carceriere, il sig. Coronavirus, e non i nostri governanti, non ci lascia scampo: dobbiamo essere responsabili per noi, per i nostri cari, per gli altri, specialmente per quelli più fragili. E così, la beffa, le chiavi della nostra cella le abbiamo noi, e siamo noi che decidiamo, tolti gli “imbecilli” (come il vecchio Bersani li ha apostrofati l’altra sera in tv) che se ne fregano ed evadono, uscendo indiscriminatamente, mettendo a rischio tutti, perché “sono stanchi di stare in casa, e non ce la fanno più. Loro, poverini.
L’aspetto positivo della carcerazione (?!) è che ci si può innamorare del proprio carceriere, secondo la ben nota “sindrome di Stoccolma” durante la quale si attiverebbe una “sorta di alleanza e solidarietà tra vittima e carnefice” che tende a rassicurare le persone che “stanno dentro” contro coloro che “stanno fuori”. Dato per assunto il fatto che pare non ci siano classificazioni scientifiche che dimostrano una tale patologia, che prende spunto da un fatto reale di sequestro di ostaggi a Stoccolma nel 1973, devo ammettere che sto provando un senso di riconoscenza per vivere questa esperienza che mi permette di rivalutare una serie di aspetti positivi: in primis il fatto che devo e voglio prendermi cura di me, degli altri e del mondo; è la linea guida di una serie di incontri a cui partecipo in queste settimane, in compagnia di un gruppo di pensatori e professionisti dell’”aiuto”.
Tanti sono gli insegnamenti che ricevo e che sarebbe troppo lungo elencare: uno fra tutti è che “pare sia più facile prendersi cura degli altri se si arriva da esperienze di sofferenza personale”.
La reciprocità della cura, aiutandoti io vengo aiutato, è la base della pedagogia alla cura: penso ai bambini, ai giovani che in questi giorni sono spinti, a volte forzati, a prendersi cura delle proprie cose, a dare valore alla propria casa, talvolta piccola ma importante, a fare selezione del superfluo, a sperimentare la presenza di genitori o parenti che normalmente si frequentano poco e che in questo momento esprimono le loro fragilità e caratteristiche, essendo faticoso mascherarle in spazi angusti.
E sto pensando ad un mondo dove, come riferisce Jeremy Rifkin in suo recente articolo, cogliendo le grandi trasformazioni che in genere seguono le epidemie, dovremo tener conto del valore “economico” delle diversità locali, di un modo diverso e più ecologico di comunicare e di viaggiare, di valori “morali” come il tempo , il lavoro ed il denaro che dovremo necessariamente riconsiderare. Avremo cura della nostra gente, dei nostri territori, del nostro mondo insomma.
Ma, oltre alla salute, che oggi ha ripreso finalmente il suo posto al vertice dei valori, ci manca l’unico vero bene che è la LIBERTA’: non tanto l’essere liberi da qualcuno, liberi di fare qualcosa o quello che volgiamo noi, ci manca soprattutto l’essere liberi di scegliere: poter scegliere è, secondo i dettami della psicologia positiva, una delle fonti principali del benessere, della felicità. E in questi giorni ci manca.
Questo è anche un pericolo: spesso, dopo una grave epidemia o una grande carestia, si annotano negli annali spinte autoritarie, talvolta sfociate nella dittatura. E’ avvenuto anche dopo la “spagnola” del 1918-20, , nel 1348 a Venezia, in Inghilterra ai tempi della peste nera, a Milano nel 1630, come avviene ancora in zone dell’Africa e via scorrendo gli annali di storia.
Freud nel suo “disagio della civiltà” scriveva nel 1929 che gli individui (impauriti) sono disposti a cedere fette crescenti della propria libertà in cambio di fette crescenti di sicurezza (talvolta solo promessa) , magari non ricordando che già Benjamin Franklin ricordò che “Chi è pronto a dar via le proprie libertà fondamentali per comprarsi briciole di temporanea sicurezza, non merita né la libertà né la sicurezza. (“Those who would give up essential Liberty, to purchase a little temporary Safety, deserve neither Liberty nor Safety”.[ (Dalla Risposta al Governatore, Assemblea della Pennsylvania, 11 novembre 1755)
Per questo il bambino di Bari è importante: lui, debole, indifeso, proiettato al futuro e alla vita riconosce un’autorità che è l’unica strada possibile per riconquistare la sua libertà. Ma sarà questa autorità a permettere al bambino di essere di nuovo libero veramente.
In alto i cuori, sempre.
Franco Cesaro